un mese d'Africa

Giovedì 19 Maggio 2011 00:00
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Quando è tornato dallo Zambia sono andata a prenderlo a Fiumicino: era solo, in spalla un sacco di tela beige, la voce roca e pacata, un’aria semplice un po’ provata.
Per una serie di vicissitudini rientrava da Lusaka con un giorno di anticipo sul gruppo che alla partenza era composto da sei ragazzi e quindici valigie per circa 300 Kg di peso e c’erano volute tre station wagon per accompagnarli.
Nel tragitto che ci riportava a casa ascolto i suoi racconti: le necessità primarie di un continente tanto vasto, le emergenze, la vita che scorre lenta nei villaggi e il volto delle persone che ha incontrato: la sua esperienza come volontario di AMANI, in un mese d’Africa.

AMANI, che in Kiswahili vuol dire “pace”, è un’associazione laica ispirata e fondata tra gli altri dal padre comboniano Renato Kizito Sesana. Raffaele è mio fratello, ecco il perché del tono un po’ familiare dell’intervista.

E’ un’ong che si impegna particolarmente a favore delle popolazioni africane curando un numero ristretto di progetti, per mantenere la sua azione su base prevalentemente volontaria e per contenere i costi a carico dei donatori. Affida ogni progetto ed ogni iniziativa sul territorio africano solo ed esclusivamente a persone del luogo.
Le principali sue attività sono le due case di accoglienza per bambine e bambini di strada a Nairobi, il Mthunzi Center di Lusaka (un progetto per i bambini di strada) e la difesa del popolo Nuba in Sudan, vittima di un vero e proprio genocidio.
Amani sostiene inoltre News from Africa, un’agenzia di stampa redatta interamente da giovani giornalisti e scrittori africani; una piccola scuola in Kenia nel poverissimo quartiere di Libera; una compagnia di giovani attori che lavorano per una cultura di pace attraverso la mediazione dei conflitti: l’Amani people’s Theater.

 

Com’erano gli edifici della missione?

Niente di quello che puoi immaginare! Quattro mura grezze e un tetto di ethernit.
Il refettorio poteva contenere 40 persone sedute attorno a tavoli e panche di legno, c’erano una TV e uno stereo donati dall’Italia e nelle vicinanze due bagni all’aperto con una doccia ad acqua fredda.
Le 4 Camerate illuminate con una lampadina potevano ospitare 70/80 ragazzi in letti a castello (il tutto costruito nella falegnameria interna), immancabili le zanzariere alle finestre; adiacenti 3 bagni all’aperto in ognuno dei quali un bidet. C’erano poi la camera di Padre Kizito e l’alloggio della famiglia custode: il papà è uno degli educatori nella missione.
Sul retro la piccola clinica provvedeva al primo soccorso che consisteva sostanzialmente nel medicare le ferite, sistemare le fratture e curare la malaria. I casi gravi venivano invece caricati sul pulmino e portati a Lusaka, l’ospedale più vicino a circa un’ora di strada.
C’era anche una stanza che di solito era chiusa e fungeva da magazzino, da sartoria nonché da aula scolastica dove si tenevano i corsi per imparare ad usare il PC. La falegnameria, completamente manuale era stata realizzata con i contributi giunti dall’Italia e tutti gli arredi della missione venivano qui realizzati.

E la cucina?

All’esterno con fuoco a legna e all’interno elettrica, attaccata all’unico cavo che arriva nella missione, ripartito in base alle necessità elettriche.
Il fatto importante è che qui c’è un mulino e dai villaggi vicini, ma anche dalla capitale, arrivano persone per macinare il mais ed ottenere la farina di polenta che è la base dell’alimentazione. Attorno alla missione un campo di caffè, uno di limoni e la vecchia porcilaia dove oggi vengono tenuti pochi polli.

Com’era la giornata e cosa mangiavate?

Sveglia intorno alle 6,30 colazione in tavola alle 8; per i volontari consisteva in thé o caffè solubile (si trovava solo Nescafé), radici, pane e burro di arachidi. Se c’era, della marmellata. Ai ragazzi venivano serviti una specie di caffè-latte e una fetta di pane.
Subito dopo un incontro tra educatori stabiliva il programma della giornata dei volontari che consisteva sempre – più o meno – nel rassettare il centro, pulire le camerate, annaffiare il poco verde e le piantagioni, ramazzare il cortile e fare il bucato.
Per i 100 ragazzi la mattina c’era scuola nel villaggio vicino la mattina, mezz’ora a piedi passando per la scorciatoia del bosco; imparavano la lingua inglese, la matematica, storia e geografia.
Nel pomeriggio invece giochi e ricreazione presso il Centro. Ho organizzato per loro delle piccole olimpiadi: tiro alla fune (che si è rotta quasi subito), corsa coi sacchi, tiro della scarpa oramai inutilizzabile e con i compagni facevamo un po’ di giocoleria da clown.
Il pasto consisteva in un cibo molto semplice e sempre uguale: una porzione di pollo o di Chapenta (piccoli pesci) con polenta o riso, una verdura spontanea della zona tipo verza o avocado. La polenta viene impastata manualmente con acqua mentre il cavolo viene cotto in brodo vegetale così come il pollo; nessun condimento, niente frutta, latte o prodotti animali. Si mangia con le mani e non essendoci detersivi il problema dell’unto residuo non è cosa da poco. Dopo cena si accendeva lo stereo e si ballava.

Chi sono i volontari di Amani? Come si praparano all’esperienza?

Sono ragazzi e ragazze che si avvicinano al volontariato per passione oppure che già svolgono un’attività nel sociale e si sentono pronti per provare questa esperienza in Africa. Le selezioni per 120 volontari ogni volta si tengono a Cesena, Milano ed Ancona; di questi 40 verranno ritenuti abili: 15 partiranno per lo Zambia e 25 per il Kenia.
La preparazione viene condotta da ex-campisti, da un responsabile ASL che è volontario Amani e da Padre Kizito in cinque week-end durante i quali si crea la crescita personale, si impara a condividere esperienza col gruppo, si conosce meglio la zona in cui si lavorerà e ci si impegna personalmente nei mercatini per la vendita dei materiali.

Da dove vengono i fondi per sostenere i progetti?

L’attività più intensa volta alla raccolta di fondi per Amani si svolge a Cesenatico dove ci sono alcune Società che sovvenzionano da tempo il gruppo; vengono organizzate Feste a tema e trattandosi di una Onlus ogni offerta è deducibile. Si accettano anche materiali vari che vengono in parte venduti nei mercatini ed in parte portati in Africa: principalmente libri, quaderni, PC usati, macchine da cucire, etc.

Cosa hai imparato da questa esperienza?

Innanzitutto un gran rispetto per il cibo. Siamo tutti abituati a darlo per scontato, così come l’acqua. Andiamo al supermercato ed é li, sullo scaffale.
Ecco, in Africa il cibo non c’é. E’ penoso.

Perché tu sei andato in Africa?

Un mese di volontariato in Africa non è nulla.
Ci vorrebbero molti mesi d’Africa, molti volontari disposti a partire e donare il loro tempo per non interrompere quella continuità che per le comunità locali fa la differenza. Quando il gruppo riparte tutte le attività subiscono un fermo sino all’arrivo della missione successiva e dato che le missioni italiane al Mthunzi Center sono due l’anno, nel lasso di tempo che intercorre tra l’una e l’altra una sorta di staticità fisiologica si riappropria degli spazi appena colmati: è questo il vero ostacolo al progresso di questi popoli.
Non si tratta di immobilismo o svogliatezza come alcune volte sentiamo dire ma di mancanza di motivazione, di un fine, di sottomissione alla immutabile realtà esistente. Fuori dal centro non ci sono sbocchi effettivi e tutto si genera a partire dall’occidente.
Perché una volta che hai insegnato ad usare il PC e hai spiegato come fare un logo e una carta intestata ti viene chiesto “ma perché io dovrei aver bisogno di fare questo?” Quindi capisci che c’é altro da spiegare, da far capire e io vado per queste ragioni.
Se i manufatti che le donne hanno realizzato con le macchine da cucire non vengono venduti, e qualcuno non si occupa della vendita, restano li. Così come le macchine da cucire: non ha senso regalarle alle donne che ritornato ai loro villaggi, non le utilizzerebbero.
La vita molto semplice e ruota attorno all’indispensabile per sopravvivere: reperire o coltivare il cibo per il giorno, fare il fuoco per la sera, il bucato, occuparsi dei bambini. Gli uomini sono lontani, vanno a lavorare nella capitale.
Non ci sono vie e mezzi di comunicazione efficienti per mettere in comunicazione l’Africa che è un continente vastissimo: le distanze, incolmabili, disperdono le forze.

Pensi che ci andrai di nuovo?

Veramente avrei già preso il biglietto … sono in partenza con la prossima missione, il 20 dicembre.
C’é bisogno di noi volontari in Africa.

Per approfondimenti: www.amaniforafrica.org

 

Questa é una mia intervista del 2004, ritrovata casualmente cercando qualcosa su internet. E' sempre così attuale ...