Capitolo 1 - Cause, radici e sviluppi dell'oppressione sociale.
1.2 Parole vuote e omicide
Nell’analizzare i grandi ideali per i quali si è portati all’uso della violenza e della forza, nel testo del 1937 Non ricominciamo la guerra di Troia[1], Weil scopre che quelli di fatto sono parole che coprono un vuoto effettivo, e che sono utilizzate prevalentemente in politica: nazione, sicurezza, proprietà, democrazia, ordine autorità. Le chiama “parole omicide” perché non indicano obiettivi da raggiungere e non hanno altro scopo che la morte. In presenza di un obiettivo concreto, attraverso una forma di dialogo e compromesso, l’obiettivo sarebbe alla portata dei rivali, ma come nella guerra di Troia non c’è e le parole hanno il ruolo di Elena, abbellite di maiuscole ma senza contenuto.
Weil vorrebbe smascherare l’ipocrisia, togliere la patina di inganno, quel vocabolario artificiale in uso alla politica che genera potere, violenza, e perciò uso della forza con il pretesto della sicurezza o del bene pubblico.
Compito dell’intellettuale sarebbe infatti chiarire, smascherare il vocabolario astratto e la pochezza intellettuale, tramite un pensiero che sia ragionato; un invito di Weil agli intellettuali spenti e inoffensivi sul loro ruolo nel vigilare, nel tornare a soppesare e mettere tutto in relazione, e denunciarlo come lei stava provando a fare. Anche le coppie di opposti generano una contrapposizione, tendono alla reciproca eliminazione, assumendo quella rilevanza che una volta spettava alle divinità. Le parole dell’ideologia e della politica sostituiscono il ruolo degli dèi in un mondo ormai privo di religiosità e gli uomini, accecati da questi ideali, iniziano guerre che hanno disastrose conseguenze. Ideali irreali e conseguenze reali. Fascismo-comunismo, dittatura-democrazia.
Una volta che gli uomini vengono a far parte di uno dei due gruppi di contrapposizione, non riescono più a vedere le caratteristiche che li accomunano agli individui che hanno di fronte, nell’altro schieramento, quelli che adesso identificano come loro nuovi nemici, e la diversità che dovrebbe essere il valore e uno stimolo a capire di più del diverso, fa invece nascere un sentimento di paura, d’intolleranza, e comincia la violenza di cui non si riesce ad immaginare la portata dal punto di vista delle conseguenze sociali. Nelle guerre, ad esempio, una volta che sono iniziate esse si autoalimentano, e mentre i massacri si moltiplicano la tregua e gli accordi si allontanano per la paura di far apparire il proprio paese più debole del Paese contrapposto. Nella contingenza gli ideali vengono sostituiti dalle realtà istituzionali organizzate dallo stato che, volendo assicurarsi la propria sopravvivenza, mirano esclusivamente ad annientare il nemico.
Però succede che nel tempo, l’iniziale fittizio entusiasmo si logora e solo allora viene avvertita la costrizione, lo stato d’animo dello schiavo, di chi non ha più nessuna scelta e perciò subentra il rancore.
Nel progetto d’articolo del marzo 1936 Risposta a una domanda di Alain[2], Weil si sofferma su due termini in particolare: dignità e onore. Parole queste, che vengono usate abilmente nelle questioni internazionali per persuadere circa gli obiettivi imposti. Ma Weil ricorda che ognuno è il solo giudice di sé stesso, ed è impossibile delegare a un altro il compito di giudicare se la conservazione della stima di sé esiga o meno di mettere in gioco la propria vita. Inoltre, la difesa della dignità non può essere imposta con la costrizione. Se la Dignità è considerata come la stima di sé, sicuramente è preferibile mantenerla, ma ciò in relazione ad azioni compiute in prima persona, azioni che abbiamo scelto. In questo senso la difesa della dignità non può essere imposta e la guerra non è di certo una risorsa per la nostra dignità o per evitare il disprezzo di sé.
L’anima stessa dell’onore sta nel mettere in gioco la propria vita secondo una libera decisione, e non secondo costrizione.
Il potere di aprire o far cessare le ostilità di una guerra è esclusivamente nelle mani di chi non si batte in quella guerra.
La libera decisione di mettere la propria vita al servizio altrui è l’anima stessa dell’onore, ma l’onore non c’entra quando gli uni decidono per gli altri senza rischi, e gli altri muoiono in nome di una semplice obbedienza.
“Se mai la somma di sofferenze, di sangue e di lacrime che una guerra rappresenta potesse essere giustificata, sarebbe nel caso in cui un popolo lotta e muore per una causa che desidera difendere, e non per un pezzo di carta che non ha mai avuto la possibilità di conoscere.”[3]
La dignità nelle questioni internazionali non può essere intesa come “stima di sé” e non ha come opposto il ‘disprezzo di sè’ ma l’umiliazione (il disprezzo degli altri): c’è differenza tra perdere il rispetto di sé ed essere poco rispettati dagli altri. Gesù sbeffeggiato e incoronato di spine non era sminuito ai suoi occhi.
Preferire la morte al disprezzo di sé è il fondamento della morale. Preferire la morte all’umiliazione è un’altra cosa: è un punto d’onore feudale. La filosofa sta rimarcando che per difendere l’onore feudale si mandano a morte i più deboli, le masse popolari trattate come carne da cannone.
L’umiliazione è fattore essenziale della nostra organizzazione sociale (il pane quotidiano per i più poveri) e in guerra questo fattore viene portato a uno stadio ancor più elevato, perché se nella vita civile si viene calpestati ogni giorno, la dignità personale di coloro che vengono mandati a morire in guerra per una astratta dignità nazionale (una dignità peraltro mai accordata a loro), proprio mentre stanno dando la loro vita vengono ulteriormente umiliati dai comportamenti vessatori nell’ambito del sistema militare, come insulti da parte dei superiori, scherno, ordini di sparare anche ai compagni, e mentre li si proclama ‘eroi’ sono in realtà ‘schiavi’.
Nell’epistolario che Simone Weil intrattiene con Joë Bousquet, grande invalido di guerra, negli ultimi anni della sua vita, lui le confida un episodio significativo al riguardo.
“sono al mio primo attacco; [il tenente Houdard dà ai soldati le ultime istruzioni] con molto ardore “una raccomandazione! Divieto categorico ai combattenti di fermarsi presso i feriti. Nulla autorizza un soldato che si batte a raccogliere i lamenti o le raccomandazioni di un soldato che muore.” Quel contatto con la legge della guerra mi parve più terribile della battaglia stessa. La battaglia infatti non si disvela mai in tutta la sua ampiezza, e la regola che essa ha reso indispensabile ne mette a nudo d’un colpo tutto l’orrore. Interrogai il tenente Houdard e lui rispose: “Il soldato che attacca – disse – appartiene alla sua missione, al suo dovere, appartiene alla grande battaglia che con stupore vede formarsi, è preda della sua immaginazione e del suo dovere, non può disporre di sé. Parlare con un moribondo lo restituisce a sé stesso e decompone la volontà che l’evento aveva generato in lui. Non è più l’uomo di quell’impresa gigantesca. La pietà, la paura, fanno nascere in lui una coscienza e questa coscienza è totalmente dolore.”[4]
Se si portasse nella società quotidiana il principio internazionale di respingere l’umiliazione al prezzo della vita, si sovvertirebbe l’ordine sociale e in particolare la disciplina indispensabile alla guerra. Gli schiavi sono mandati a morire in nome di una dignità che non viene mai a loro accordata. Le guerre sono ingranaggio essenziale del meccanismo stesso dell’oppressione.
Per cercare di capire le origini della nascita della violenza e dell’oppressione, Weil risale lungo il corso dei secoli, analizzando le trasformazioni della Roma Repubblicana imperiale nel bacino del Mediterraneo. Si era riavvicinata ai classici ma aveva cominciato a leggere anche la Bibbia, accostandosi alle correnti filosofiche dell’India e della Cina, al Libro dei morti egiziano. Questa ricerca dove aveva visto che la Grecia antica si collegava al cristianesimo porterà alla sua trasformazione interiore. È il 1937, l’anno in cui va ad Assisi e sperimenta l’incontro che non riteneva possibile[5].
[1] S. Weil, “Non ricominciamo la guerra di Troia (Potere delle parole) (1937)”, in Sulla Guerra, trad. it. e a cura di Donatella Zazzi, il Saggiatore, Milano, (2017), p. 69.
[2] Ivi, p. 49.
[3] S. Weil, “Non-intervento generalizzato (Progetto d’articolo, inverno 1936-1937)”, in Sulla guerra, cit., p. 57.
[4] Simone Weil-Joë Bousquet, Corrispondenza, 1994, SE, Milano, (1994), p. 26.
[5] Ivi, a p. 38 si legge: “In un momento di intenso dolore fisico, mentre mi sforzavo di amare, ma senza attribuirmi il diritto di dare un nome a questo amore, ho sentito, senza esservi assolutamente preparata, una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, inaccessibile sia ai sensi che all’immaginazione, analoga all’amore che traspare attraverso il più tenero sorriso di un essere amato. Non potevo essere preparata a questa presenza – non avevo mai letto dei mistici. Da quell’istante in nome di Dio e quello di Cristo si sono mescolati in maniera sempre più irresistibile ai miei pensieri.”