di Franco Bomprezzi
“Costretto su una sedia a rotelle”. Quante volte mi sono imbattuto in questa pessima frase fatta, utilizzata – mi si consenta – a ogni pie’ sospinto da colleghi giornalisti, di carta stampata o di televisione, per connotare la situazione disgraziata di una persona che non può più camminare, o in seguito a un incidente, o per malattia.
C’è persino la variante involontariamente blasfema: “Inchiodato su una sedia a rotelle”. Credo che chi usa queste espressioni non si renda neppure conto del danno che produce, innanzitutto al mio sistema nervoso, ma più in generale a una corretta comunicazione sulla disabilità.
Io di me stesso scrivo sempre: “vivo e lavoro in sedia a rotelle”. Vivo e lavoro, ossia sono libero, “grazie” alla carrozzina. Senza di lei sarei immobile, perché – questo è vero – non riesco a camminare, neppure se mi prendono a calci. Sono così dalla nascita, e dunque probabilmente ci faccio meno caso di altri. La carrozzina è quasi congenita, mi si adatta, o meglio io ormai aderisco alla sua superficie, la calzo come un guanto, la conosco perfettamente, e, a dire il vero, la trascuro non poco, a causa della mia altrettanto congenita pigrizia.