Caro sconosciuto,
che un sabato pomeriggio di 39 anni fa hai raggirato la mia esistenza.
Donna. Da subito. Meglio femmina, come appellativo. O per lo meno trattata come tale. Cosi mi sono sentita quel sabato pomeriggio, a 11 anni.
La mamma mi accompagna alla fermata dell’autobus per la mia prima corsa da sola, dall’altra parte della città mi aspetta la zia, sempre alla fermata. Un test, un’avventura nuova. 1972 a Parma, città di provincia. Capelli legati, trecce credo, pantaloni cuciti dalla vicina, come nei paesi, maglietta con Susanna, quella del formaggino, una borsetta a tracolla bordeaux con le frange, in piedi, attaccata al tubo verticale guardo fuori, un po’ agitata ma contenta. Poi la tua mano maschile avvolge la mia (piccola mano, sempre stata minuta da bimba), la vedo ancora adesso. Mi paralizzo, non sfilo la mia, non oso girarmi per guardare a chi appartiene, penso che non te ne sei accorto. Poi buio, solo caldo, sudore e paura. L’autobus viaggia, si ferma, riparte, riesco solo a guardarmi intorno per capire se qualcuno si è accorto della tua mano che avvolge la mia, no, nessuno. Ennesima fermata, la tua mano (finalmente) si stacca, mi giro e ti guardo: trent’anni, un po’ di barba, occhi chiari, in un attimo sei sceso, sei scomparso. Buio. Non mi ricordo più nulla di quella giornata, so solo che non lo racconto a nessuno. L’episodio scompare dalla memoria per riaffiorare dopo anni quando le molestie da parte di altri sconosciuti sono diventate pesanti e ho cominciato a ragionare su quello che hanno edificato dentro di me. (...)