È accaduto così quel giorno. Sono i cosiddetti ricordi indelebili. Entrano direttamente nella memoria a lungo termine più importante, quella storica. Ero preparato, avevo pensato a quel momento da tanto. Sapevo che sarebbe arrivato. Prima mai. Di quel pericolare periodo intendo. Perché per arrivare a quel punto di non ritorno ti devi macchiare di infamia. E questo per il mio carattere, per il mio "essere" non è contemplato. Per primo ho messo sul tavolo le manette, quasi contemporaneamente le chiavi. Chi era davanti a me non parlava. Mi ha accolto nel suo ufficio con uno sguardo che dice tutto. Quei silenzi che parlano. Anche l'atmosfera parlava. Si respirava. Una bolla emotiva. Solo chi ha una sensibilità particolare mi può capire. Gli altri non mi interessano. Non mi sedetti. Restai appositamente in piedi. Il secondo fu il tesserino. Ci mise un po' ad uscire dalla custodia, come in un romanzo quando le istituzioni, per mezzo dei suoi esecutori, portano via i bimbi ai genitori e loro si attaccano disperatamente alla porta. Un vano tentativo che però è anche un bellissimo gesto d'amore. Poi è toccato al distintivo. L'occhio si è concentrato subito sul simbolo principe, la stella che rappresenta lo Stato. Già lo Stato. Quello per cui ho dedicato quasi una vita intera. Ma il passato non conta. C'era il "qui e ora". Per ultimo l'arma. La sicura inserita. L'estrazione del caricatore. Poi come da manuale: "arma in sicura e priva di caricatore (doppio scarrellamento con arma puntata verso un punto sicuro) arma scarica". Il suono metallico echeggiava ancora quando misi l'arma sulla scrivania. Poi le firme e il saluto. Non si mosse chi era dall'altra parte. Mi vennero in mente le parole di una bellissima canzone
<<Spesso gli sbirri e i carabinieri Al proprio dovere vengono meno.
Ma non quando sono in alta uniforme.
E l'accompagnarono al primo treno.>>
Poi uscii. Non parlai con nessuno. Solo un abbraccio con un paio di colleghi, un attimo eterno. (...)